I test di screening per i tumori sono raccomandati quando i benefici (in termini di riduzione di morbilità e mortalità) superano i rischi (primo tra tutti quello dei trattamenti inutili o eccessivi).
In epoca di medicina di precisione è giusto però fare una riflessione sul fatto che anche i test debbano essere in qualche misura personalizzati rispetto al rischio individuale del paziente, che andrà valutato a priori in base alle sue caratteristiche genetiche, ambientali e dello stile di vita. Lo screening insomma non andrebbe offerto a tutte le donne indistintamente, ma solo a quelle a più alto rischio.
E’ la proposta di un articolo pubblicato su JAMA Oncology a firma di Nora Pashayan dello University College di Londra e collegh, secondo i quali questo tipo di approccio migliorerebbe la costo-efficacia e il rapporto rischi-benefici dei programmi di screening.
In questo studio di costo-efficacia, gli autori hanno utilizzato un modello di tabella di vita di una ipotetica coorte inglese di 364.500 donne cinquantenni, seguite fino agli 85 anni, utilizzando i risultati dell’Independent UK Panel on Breast Cancer Screening e la distribuzione del rischio basata sul profilo di rischio poligenico.
Gli interventi utilizzati nel modello sono stati: assenza di screening; screening basato sull’età (screening mammografico ogni 3 anni dai 50 ai 69 anni); screening stratificato per rischio (ad una percentuale di donne di 50 anni con uno score di rischio superiore ad una determinata soglia di rischio veniva offerto uno screening mammografico ogni 3 anni, fino ai 69 anni).
L’analisi ha evidenziato che lo screening mirato alle donne a più alto rischio di cancro della mammella, si associa ad una riduzione dell’eccesso di diagnosi e della spesa relativa allo screening stesso, senza compromettere gli anni di vita guadagnati corretti per la qualità (QALY) e mantenendo invece una riduzione della mortalità associata al cancro della mammella.
Alla riduzione del rischio della paziente, il costo incrementale del programma aumentava in maniera lineare, senza peraltro permettere di guadagnare ulteriori QALY al di sotto del 35° percentile della soglia di rischio.
Abbassando l’asticella della soglia del rischio insomma, aumenta il numero delle donne alle quali offrire lo screening e aumentano di conseguenza i costi del programma, mentre il guadagno in QALY, ad una certa soglia di rischio si appiattirebbe. Abbassare troppo la soglia del rischio inoltre in proporzione aumenterebbe molto più il numero delle diagnosi in eccesso, rispetto al numero di morti per cancro della mammella che andrebbe ad evitare. In particolare, gli autori dello studio hanno calcolato che per ogni 10.000 donne di 50 anni sottoposte a screening mammografico secondo il criterio dell’età, per i prossimi 20 anni in Gran Bretagna si eviterebbero 52 morti per cancro della mammella ma si andrebbero a sovra-diagnosticare 105 pazienti con cancro della mammella.
Rispetto allo screening basato sull’età, quello basato sulla stratificazione del rischio al 32° percentile o al 70° percentile della soglia di rischio costerebbe rispettivamente circa 27.000 dollari o 538.000 dollari in meno, produrrebbe rispettivamente il 26,7% e il 71,4% di sovra-diagnosi in meno ed eviterebbe rispettivamente il 2,9% e il 9,6% di morti per cancro della mammella in meno.
La costo-efficacia e il rapporto rischio-beneficio dei programmi di screening per cancro della mammella possono insomma essere migliorati adottando una strategia di screening basata sulla stratificazione del rischio.
La soglia di rischio a partire dalla quale proporre lo screening andrebbe attentamente ponderata (e validata) per trovare il giusto compromesso tra il migliorare la costo-efficacia del programma, massimizzarne i benefici e ridurne al minimo i danni.
L’implementazione di uno screening basato sul rischio dovrebbe rispondere infine ad una serie di requisiti, quali ad esempio assicurare la fattibilità dei test genetici per la stratificazione del rischio (ci sono circa 300 polimorfismi genici che aumentano o riducono la suscettibilità a questa malattia) addestrare gli operatori sanitari, assicurare un accesso equo, acquisire le necessarie autorizzazioni regolatorie.
Maria Rita Montebelli
Fonte: A.O.G.O.I. – Associazione Ostetrici Ginecologi Ospedalieri Italiani – http://www.aogoi.it
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